Autoritratto

Sono nato a Roma il 1° aprile 1984. Ascolto jazz da sempre, perché mio padre, Antonio, è un grande appassionato, critico di jazz, collezionista di dischi e batterista dilettante. Dalla sua batteria – una Premier “Kenny Clarke” – ero attratto fin da quando portavo il pannolone, e ci sono foto di quell’epoca che mi ritraggono già con le bacchette in mano.

Quando ad otto anni gli manifestai il desiderio di studiare seriamente lo strumento, mi portò ad una scuola di musica vicino casa e mi voleva convincere a sonare il sassofono. Parlò con il direttore della scuola e gli espresse questo suo desiderio. Ma non aveva fatto i conti con la mia vocazione alla percussione. Ad un tratto scorsi una batteria in un angolo; mi avvicinai, presi le bacchette e chiesi al maestro: «Posso sonarla?». Il maestro era Emiliano Pratesi, figlio adottivo di Bruno Martino, allievo di Chuck Flores a Los Angeles. «Forza, fammi vedere cosa sai fare!».

Attaccai a sonare con swing. Dopo pochi attimi il direttore della scuola piantò su due piedi mio padre e venne da me, mentre Emiliano ed il maestro di musica d’assieme erano visibilmente stupiti. Il direttore andò da mio padre: «Ma lei scherza? Ma quale sassofono! Questo è un talento naturale della percussione; mi creda: è un batterista nato! Mai sentito nulla di simile a quell’età. Ma come ha fatto a non rendersene conto?». Ed Emiliano aggiunse: «Se studia seriamente, questo ragazzino potrebbe diventare un altro Buddy Rich».

Papà – un dilettante con enorme swing ed un gran “tiro”, ma senza tecnica, perché, preso dai suoi impegni di ricerca nel campo della filologia italiana medievale e rinascimentale, non ha mai studiato lo strumento – aveva l’idea fissa di formare un gruppo di stile californiano: per cui sognava un sassofonista che sonasse alla Bob Cooper, alla Jack Montrose, alla Mike Cuozzo (il suo tenore in assoluto preferito). Certo a tutto pensava meno che ad un secondo batterista dentro casa.

Diversamente da molti batteristi attuali, amo impiegare le spazzole; inoltre, prediligo i piatti Zildjian (in particolare, K e Avedis) e le batterie d’epoca, quelle che hanno fatto la storia del jazz: Leedy, Gretsch, Ludwig, Premier, Slingerland e Rogers. I miei batteristi preferiti sono Buddy Rich, Shelly Manne e Louis Bellson. Molto ho preso anche da Kenny Clarke, Connie Kay e Jeff Morton. Tra i più moderni, stimo Vinnie Colaiuta, Steve Gadd e Dennis Chambers, dei quali, però, non approvo le frequenti sortite nel campo della fusion e del jazz-rock, stili commerciali che detesto. Pare che oggi i musicisti di jazz si vergognino di sonare con swing, che è l’elemento basilare del jazz. Per me aveva perfettamente ragione Duke Ellington quando intitolò un celebre brano It don’t mean a thing if it ain’t got that swing.

Il jazz è musica statunitense, che strumentisti di qualsiasi nazione possono sonare ad alto livello purché si conformino ai canoni del jazz statunitense. In un assolo un vero jazzista non deve fare dell’agonismo muscolare con interminabili e prevedibili scale, ma, come asseriva Lester Young, raccontare una storia. Concordo appieno con Gianni Basso quando sostiene che il jazz è la musica «delle tre B: Bop, Ballads e Blues».

Un’altra cosa che non sopporto è il diffuso preconcetto in base al quale il jazz sarebbe nero, africano e viscerale, per cui i bianchi sonerebbero un jazz “minore”. Molto spesso, invece, è vero l’esatto contrario; né è corretto sminuire artisti che abbiano una sensibilità impressionistica e siano colti e raffinati. Il jazz è il più alto esempio di arte interrazziale.

A sedici anni ho avuto la fortuna di sonare con musicisti del calibro di Gianni Basso, di Dino e Franco Piana, di Franco Cerri, di Bruno De Filippi, Lanfranco Malaguti e Piero Leveratto. Ricordo, inoltre, che già ad undici anni ebbi modo di sonare con la Roman New Orleans Jazz Band per una sera, allorché sostituii occasionalmente Paolo Rossi.

Il mio stile di gran lunga preferito è il californiano perché si tratta della forma di jazz più raffinata, colta, misurata e mai casuale, ma molto arrangiata e sorvegliata, fondata su elementi di nobile ascendenza quali la fuga e il contrappunto, e per di più ricca di uno swing straordinariamente marcato.

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