Intervista

Ormai tutti sanno, anche all’estero, che ti sei posto come programma il rilancio del jazz californiano. Perché hai scelto questo stile, che ha avuto una scarsa fortuna presso la critica?

Perché è quello a me più congeniale. Io amo tutto il vero jazz: dal New Orleans ad Eric Dolphy, ma gli stili più raffinati sono senza discussioni proprio il cool ed il californiano, che del cool è un’intelligente evoluzione. Ha preso il meglio della tradizione: da Parker – che, insieme ad Art Pepper, ritengo il massimo genio espresso dal jazz – ha derivato la componente boppistica; da Tristano il cool; da Lester Young e da Basie lo swing di Kansas City. Mettici, poi, grazie a Darius Milhaud e a Wesley La Violette, un perfetto dominio della musica classica (le fughe e i contrappunti dei californiani sono insuperabili) ed hai una miscela ineguagliabile.
Hanno scritto che il West Coast sarebbe una musica snervata, una “stolta melassa”. Sono sciocchezze madornali. I californiani hanno più swing di tutti. E non è un caso che con loro abbiano inciso molto Harry Edison e Benny Carter.

C’è qualche altro aspetto del jazz californiano che ami?

Come ho detto più volte, io non sopporto il jazz approssimativo e sbracato delle jam sessions, dove tutti mostrano i muscoli per superarsi a vicenda, con assolo torrenziali e scarsa o nulla cura formale. Il californiano è agli antipodi di tutto ciò: arrangiamento e composizione sono basilari e gli assolo hanno una funzione molto importante, ma non sono tutto.
Lo sforzo compositivo dei musicisti della West Coast è stato enorme. Non si può stare sempre a sonare gli standard. Un giorno si capirà appieno la grandezza di personaggi quali Shorty Rogers, Bill Holman, Marty Paich, Lennie Niehaus, Jimmy Giuffre, Duane Tatro, Johnny Mandel, Lyle Murphy, Bob Graettinger, Bill Russo, Russ Garcia, Gene Roland, Pete Rugolo, Johnny Richards, Paul Villepigue...

Perché, secondo te, il West Coast non ha avuto i favori della critica?

A causa del solito atteggiamento di “razzismo alla rovescia”, per cui è stato spinto sempre il jazz nero ed è stato deprezzato quello bianco. E inoltre perché non tutti, ahimè, sono di gusti raffinati: il californiano è un jazz aristocratico.
E poi non si ha una conoscenza approfondita di questo stile. A parte i maggiori, andrebbero rivalutati tanti musicisti a torto dimenticati, come Virgil Gonsalves, Herbie Harper, Jack Quigley, Bob Davis, Johnny Hamlin, Bob Hardaway, Bob Rogers, Mousie Bonati, Buddy Arnold, Dick Johnson, Al Belletto, Billy Usselton, Med Flory, Cy Touff, Jack Millman, Jerry Coker, Lennie Hambro, Ralph Gari, Bill Hitz, Max Bennett, Steve White, Ronnie Lang, Jack Martin, Harry Babasin, John Pisano e Billy Bean, l’inglese Ken Moule e gruppi meravigliosi quali il Westchester Workshop, l’Hollywood Saxophone Jazz Quartet, il Contemporary Jazz Ensemble di Rochester, i Sandole Brothers, il Westlake College Quintet e il Chamber Jazz Sextet; tutti californiani: alcuni, se non geograficamente, stilisticamente. 
Io farò rivivere questa musica sublime. È la mia principale aspirazione assieme a quella di avere un posto importante nella storia della batteria jazz. Sono programmi ambiziosi – lo so –, ma, se ho un pregio, questo è la costanza. Sto incollato allo strumento ore ed ore, sempre.

So che il tuo giudizio sul jazz attuale è molto negativo. Perché hai questa posizione?

Non sopporto le furbate. Per essere alla moda e conquistare il pubblico giovanile, troppi musicisti, magari con il pretesto di voler tentare nuove esperienze artistiche, propongono un repertorio imbastardito da pezzi rock e fusion, che sono sempre e comunque indice di volgarità e di insopportabile tendenza commerciale. 
Il jazz è swing: punto e basta. Io sono contrario a qualsiasi tipo di contaminazione. La sola parola “contaminazione” mi dà sui nervi.

Che ne pensi del jazz europeo, e italiano in particolare?

Come ho già scritto, il jazz è musica degli Stati Uniti d’America e qualsiasi jazzista di qualsivoglia parte del mondo può sonarla a livelli altissimi purché si conformi completamente ai canoni del jazz statunitense. Ma proporre una via scandinava o balcanica o mitteleuropea o padana o partenopea al jazz è semplicemente ridicolo.
L’Europa è stata ed è piena di ottimi strumentisti, e così l’Italia; ma, se si vuole essere seri e non prendere in giro se stessi ed il pubblico, si deve sonare jazz in tutto e per tutto statunitense.
Ti faccio un esempio: chiunque può preparare un’ottima ribollita o dei fantastici bucatini all’amatriciana, anche un cinese, un peruviano o un congolese; ma se, invece dell’olio d’oliva, del cavolo nero e del timo, e – nel caso dell’amatriciana – del guanciale e del pecorino romano, ci mette l’olio di sesamo, la soia e le alghe, allora tutto farà meno che una vera ribollita o una vera amatriciana.

Più volte ti sei espresso molto negativamente sul jazz modale. Perché?

È noioso e ripetitivo sino allo sfinimento. Mentre i musicisti improvvisano, so già mezzora prima quello che faranno. E questo è la morte della vera improvvisazione jazz. Non se ne può più dei gargarismi di questi ottusi e rozzi soffiatori.
Trovare un tenorista raffinato alla Getz, alla Sims, alla Cohn, alla Bob Cooper, alla Jack Montrose, alla Richie Kamuca, alla Bill Perkins, alla Bill Holman, alla Dave Pell, alla Mike Cuozzo, alla Ronnie Lang è oggi pressoché impossibile. Si provassero, questi coltraniani in formato tascabile, ad imitare artisti inimitabili come Eric Dolphy o Warne Marsh o Sonny Rollins o Art Pepper o Paul Desmond o Pee Wee Russell! Io amo i bassisti che fanno i bassisti e non i sonatori di ukulele, e i batteristi che fanno i batteristi e non i “coloristi”.

Mi fai l’elenco dei musicisti che preferisci strumento per strumento?

Con piacere. Tromba: Shorty Rogers (e, tra i neri, Clifford Brown). Trombone: Frank Rosolino: per me esiste solo lui. Corno francese: John Graas. Clarinetto: Jimmy Giuffre e Bill Smith (ma amo molto pure Tony Scott, Buddy Collette e John La Porta). Sax soprano: Gene Roland. Sax contralto: qui devo fare due nomi, ossia Art Pepper e Charlie Parker; ma adoro anche l'immenso Bud Shank, il lirico Paul Desmond e Lennie Niehaus. Sax tenore: Bob Cooper e Warne Marsh. Sax baritono: Serge Chaloff (ma cito anche Gerry Mulligan e Lars Gullin). Flauto: Bud Shank. Pianoforte: Bud Powell. Chitarra: Barney Kessel. Violino: Joe Venuti. Vibrafono: Milt Jackson. Contrabbasso: Ray Brown. Batteria: per grande orchestra, Buddy Rich; per piccolo complesso, Shelly Manne. Compositore: Shorty Rogers. Arrangiatore: Bill Holman. Grande orchestra: Stan Kenton; ma amo molto anche Count Basie. Piccolo complesso: Giants di Shorty Rogers. Cantante uomo: Mel Tormé. Cantante donna: June Christy (ma amo molto anche Ann Richards). Su tutti amo Art Pepper come solista e Stan Kenton, un immenso direttore d’orchestra, compositore, arrangiatore e finissimo pianista. E poi era un vero gentiluomo; nessuno si è mai presentato al pubblico in modo più signorile e raffinato di lui. Per me la forma conta moltissimo. Anche in questo è il mio modello.

Che strumento usi?

Io suono solo batterie d’epoca, degli anni Sessanta o Cinquanta: Leedy modello Shelly Manne, Gretsch, Ludwig, Premier, Slingerland e Rogers.
Studio molto le timbriche dei piatti perché mi piace sceglierli a seconda degli strumenti che devo accompagnare. Ne ho moltissimi. 
In genere come ride preferisco quelli medium-thin perché più versatili e di attacco immediato. Il mio piatto base è un Custom Dark Ride K Zildjian da 20’ che – in linea con la migliore tradizione della batteria jazz – tengo basso e vicinissimo al rullante e al tom (ne impiego rigorosamente uno solo; ma amo sonare con due timpani). Poi uso molto un Sizzle Ride da 20’ Istanbul e uno Swish Knocker Avedis Zildjian da 22’; talora un Pang Avedis Zildjian da 20’ (questi due ultimi quando accompagno gli ottoni); un Custom Ride K Zildjian da 22’, molto aggressivo, adatto per formazioni consistenti; in trio monto sempre un Flat Ride Istanbul da 20’, che considero il piatto migliore per accompagnare la chitarra.
Ho, però, anche degli heavy ride, assai utili: un Dark Ride Paiste Sound Creation (prima serie) da 22’, un Deep Ride Avedis Zildjian da 22’, un Ping Tosco con tre chiodi da 20’ ed un singolare extra heavy: un Earth Ride Avedis Zildjian da 20’, che impiego in casi molto particolari, come, del resto, un Bell Paiste da 8’ della serie Seven Sound Set.
Come crash, a seconda delle esigenze, uso due Custom Dark Crash K Zildjian da 15’ e da 18’, un Dark Crash Thin K Zildjian da 17’, un Paper Thin Crash Avedis Zildjian da 16’, un Dark Crash Sound Creation Paiste da 18’ (prima serie) ,un Sabian O-zone Crash da 18’ ed un Rocktagon Sabian pure da 18’ (piatto, quest’ultimo, su cui amo accompagnare il piano, come il Dark Crash Paiste), un Mini-China K Zildjian da 14’, un Oriental China Trash Sound Effects Zildjian da 18’ e uno Swish Avedis Zildjian sempre da 18’, due Splash K Zildjian da 8’ e da 12’ ed uno Splash Rocktagon Sabian da 10’. Per effetti speciali uso, infine, un EFX Piggyback Sound Effects Zildjian da 12’, che in genere accoppio con il Custom Dark Crash K Zildjian da 18’.
Due gli Hi Hats, a seconda delle esigenze: K Zildjian da 13’ e Quick Beat Avedis Zildjian da 14’.
Come bacchette uso le Vic Firth SD 4 Combo; come spazzole, le Regal Tip Clayton Cameron; come mallets, i Ludwig.

Sei soddisfatto di come suoni oggi?

La cosa che preferisco è studiare a fondo lo strumento (ora mi sto concentrando sulle poliritmie). Non salto un giorno, mai. Ho fatto molti progressi, ma i miei margini di miglioramento sono ancora grandi. Non mi sento assolutamente arrivato. Guai. Mai cullarsi sugli allori. Il cammino è ancora lunghissimo.

Preferisci i piccoli complessi o la grande orchestra?

Io sono un batterista tecnico ed amo molto le sortite solistiche. Per cui il mio sbocco più naturale è certamente la grande orchestra: questa è la mia massima aspirazione.
Ma adoro sonare anche nei piccoli gruppi, poiché impiego molto volentieri le spazzole, alle quali dedico un paio di ore di studio tutti i giorni. Posso sonare West Coast e cool, bop, hard bop e mainstream, ma a patto che si suoni con swing.

Il tuo sogno nel cassetto?

Formare una grande orchestra che suoni il repertorio californiano. Prima o poi ci riuscirò senz’altro.

torna a inizio pagina
Charlie Parker Shorty Rogers Art Pepper